martedì 11 settembre 2018

La scrittura divina di Alan Moore in Watchmen

Su Watchmen è stato scritto tutto. A distanza di più di 30 anni dalla sua prima stampa, la graphic novel di Moore e Gibbons resta secondo unanimità di critica e pubblico nell'Olimpo delle migliori opere fumettistiche di sempre, senza ossidarsi di un giorno nonostante sia un'opera eccezionalmente calata nello spirito dei suoi tempi e sia anche stilisticamente innegabilmente anni ottanta.

Personalmente non ho motivo di dissentire, visto che probabilmente l'opera occuperebbe il secondo gradino nel mio personale podio dei fumetti preferiti, ma nonostante tutti amino Watchmen e di tutto sia stato scritto, mi sembra che non si ponga mai sufficientemente l'accento su un aspetto di Watchmen che lo rende l'opera che è: la capacità divina di Alan Moore di scrivere sceneggiature.




Ovvio - penseranno i più - che sia scritto bene, lo sanno tutti che Moore è un grande sceneggiatore! E questo è lapalissiano, vero. Ma la scrittura di un fumetto (o di un film) è composta di due anime: soggetto e sceneggiatura. E a rendere ancora più monumentale la sceneggiatura di Watchmen è qualcosa di cui spesso non si parla: il soggetto è incredibilmente lineare e a tratti ingenuo.

Se si riduce la storia al minimo, si tratta della classica struttura narrativa di eroi protagonisti che combattono un male vasto e assoluto, che vengono traditi da un compagno che per combatterlo usa metodi ancora peggiori facendo della propria morale un assoluto da imporre agli altri, aberrando l'intento iniziale di contrastare il male divenendo malvagio egli stesso. Una storyline che possiamo far risalire almeno al teatro greco antico. È il paradosso di Moby Dick: leggenda narra che quando Jules Verne presentò il primo capitolo del suo Ventimila leghe sotto i mari all'editore, questo lo liquidò sostenendo che fosse sostanzialmente un plagio del romanzo di Melville, che risaliva a venti anni prima ed era uno dei libri preferiti di Verne. Poco importa che il fatto sia effettivamente avvenuto: questa semplice storia rende bene l'idea di come sintetizzando troppo una storia essa risulti inevitabilmente banale o quantomeno famigliare. Nessuno si è più inventato nulla dopo Dante e Shakespeare, come dicono gli inglesi.

Se si pone freno alla sospensione dell'incredulità che una così eccellente scrittura induce naturalmente, è anche facile trovare poca coerenza in alcuni passaggi logici della trama, e scorgere una carenza di motivazioni o plausibilità in talune azioni intraprese dai personaggi, pur dotati di un'incredibile profondità psicologica e complessità emotiva. All'analisi attenta risulta anche debole la coerenza del mondo ucronico che fa sfondo alla storia, con più di una assunzione necessaria a rendere digeribile il contesto geopolitico di costante guerra fredda, paura e tensione entro cui i personaggi si muovono.




Non è quindi la storia in sé a rendere Watchmen l'opera incredibile che è, ma piuttosto il come quella storia è raccontata dalla penna abile di Moore. E da come è ritratta dalla matita di Gibbons, è bene ricordarlo! Watchmen è anche un'opera con un'estetica immediatamente riconoscibile, fatta di pagine di vignette ossessivamente ricorsive per dimensioni e impaginazione, di pochi colori che ritornano continuamente e di supereroi in declino che incarnano una versione distopica e grottesca degli anni ottanta in cui è facilissimo collocare le tavole.

Se queste poche righe vi hanno fatto venir voglia di riprendere in mano il volume, buona lettura! E mi raccomando, non provate a dire a qualche amico "di cosa parla" Watchmen: lo sminuireste.

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